Rubrica: TERZA PAGINA |
La vera gioia è la fine del dolore?
Il dolore a piene mani di
venerdì 3 aprile 2009
Argomenti: Opinioni, riflessioni Argomenti: Ricordi Il nostro collaboratore Arturo Capasso è colpito da un brutto male e sta trovando la forza di descrive tutto il suo dramma e tutte le sue speranze. Non ci resta che augurargli una pronta e definitiva guarigione. Quando ho finito di rileggere Divisione cancro di Alexander Solzhenitsyn, ho pensato che sarebbe stato estremamente interessante trascorrere un po’ di tempo fra gli ammalati e vivere le ansie, il dolore e le emozioni che li avviluppano. Il Fato mi ha accontentato. In poco tempo sono stato ricoverato due volte al reparto oncologia dell’ospedale S.M. delle Grazie di Pozzuoli Nell’ampia stanza che mena sull’intera valle ci sono tre letti. Alla mia sinistra c’è Guido. Non può più muovere gli arti inferiori. Ha bisogno di continua assistenza. Il dolore lo prende giorno e notte, riesce a riposare solo qualche ora, dopo abbondanti sedativi. Due infermieri si prodigano anche di notte per pulire quel corpo che risponde sempre meno ai comandi del cervello. Accanto, l’intera notte, gli fa compagnia la moglie che nasconde tristezza e preoccupazione. Veglia il suo uomo, al quale ha dato cinque figli e molti nipoti. Lui la chiama spesso e lei si alza dalla sedia lunga. Quando non può soddisfare la richiesta di Guido, suona il campanello e con l’infermiere di turno lo sistema in modo più confortevole. Queste sere si trasmette il Festival di S.Remo. Non finisce mai, oltre le due di notte si alternano nuovi e vecchi cantanti, ospiti paracadutati in cose a loro ignote, stupidità e grossi interessi economici. Ascolto, non posso fare altro. Cerco di prendere sonno, mi risveglio e quel Festival è ancora in piedi. Guido riceve molte visite, tutti lo abbracciano e si dicono sicuri che presto tornerà a casa. Portano torte, gattò di patate, formaggi, prosciutto, pane casareccio, vino. Ogni volta mi invitano ad assaggiare quelle leccornie, ma io non posso toccare nulla e mi accontento dei pasti dell’ospedale, che arrivano fumanti in eleganti confezioni e il loro sapore è gradevole. E’ sabato, Guido è dimesso. Borse, borsoni, scatole, buste: sembra un trasloco Torna a casa, fra le sue mura. Ce la farà ? E per quanto ancora? Ieri invece era andato via l’altro ospite – Vittorio - che stava alla mia destra. Un uomo mite, sempre disponibile verso gli altri compagni di dolore. Aveva otto figli e quindici nipoti. Ogni tanto viene invitato dalla struttura ospedaliera ad un controllo. Ora sta completando un ciclo di chemio. Almeno una volta al giorno il Primario prof. Tafuto passa a farci visita. E’ seguito dai suoi assistenti, pronti a segnare o dare il loro parere sulla terapia da seguire. Quando entra nella camera fra gli ammalati si “sente” un sospiro di sollievo e sicurezza. Ha parole di conforto per tutti, anche se – ovviamente – per qualcuno le cose vanno male. Ed io ricordo il momento della visita del Primario nella Divisione cancro. Gli sono sottoposte le ultime lastre di un ammalato ormai senza più speranza.. Il Primario ha la prontezza di spirito di commentare quelle immagini: Ottimo. Intendeva la nitidità delle lastre. Scrive l’autore russo:
L’ammalato si rianimava: dunque le cose andavano non bene, ma addirittura benissimo. La radiografia invece era ottima, perché non aveva bisogno di essere rifatta: mostrava nitidamente le dimensioni e i contorni del tumore. Come ho già accennato, gli infermieri sono sempre disponibili e di grande professionalità. Vorrei ricordare Pino, col sorriso sulle labbra e di buon umore. Prima di iniziare il suo turno, procede ad un rito piacevole. Ha una grossa Moka e fa dell’ottimo caffé. E così si sente il profumo, poi si vede il braccio con la macchinetta ancora fumante. Un sorso, basta un piccolo sorso e ti senti un altro. Varie volte gli ho detto che avrei voluto collaborare alle spese che sostiene, si è quasi offeso. A questo punto devo dire che nessuno, dico nessuno, degli infermieri ha accettato un mio presente, rilevando che non è costume del reparto e che fanno semplicemente il loro dovere. Quasi ogni pomeriggio due signore con camice bianco vengono al nostro capezzale. Con fare gentile chiedono come stiamo e aggiungono di essere delle volontarie. Ringrazio, dico che passo meglio, ma che vorrei fare una osservazione già fatta durante un incontro coi ragazzi della Bielorussia, nostri ospiti. Loro ci avevano riempiti di amore; non si doveva parlare di “volontariato” ma piuttosto di “necessariato” Era per noi una esigenza interiore, necessaria, provare la gioia di donare. Tutte le volontarie con le quali ho scambiato quattro chiacchiere, si dimostrano pienamente d’accordo con il mio approccio. Il dolore a piene mani. Sì, puoi descrivere il dolore di chi ti sta vicino, il dolore di chi ha perso un figlio, ma quello che senti su te stesso è un’altra cosa…tutto un’altra cosa. Ecco, non te l’aspettavi, negli ultimi giorni il decorso della malattia puntava all’ottimismo. Errore. Arriva all’improvviso. mille aghi trafiggono tutto l’addome. Si agitano come tanti folletti. Non riesci neppure ad alzarti, poi mani pietose ti adagiano sul divano. Gli aghi non vogliono uscire dal mio corpo. Chiedo imploro minaccio supplico insisto grido: voglio qualcosa che blocchi questa sofferenza. Bisogna aspettare, chiamare il dottore e chiedere cosa si può fare. Quei minuti sono ore, non passano mai. E’ stata tutta colpa mia: ho ecceduto a mangiare: credevo di stare già bene. Pia illusione. Secondo giro di valzer. Dopo qualche giorno sono tornato al reparto di oncologia dell’ospedale S.M. delle Grazie di Pozzuoli.. Stessa stanza, stesso letto centrale. Alla mia sinistra c’è Giovanni, che non avrà più di quarant’anni. Le metastasi hanno preso tutto il suo corpo. Soffre, di notte non riesce a dormire. A volte lo vedo in ginocchio davanti al letto. Ha trovato la posizione giusta per riposare o sta pregando? Il suo dolore lo porta avanti in silenzio. E’ sempre triste, solo quando parla a telefono con la sua piccola figlia il suo volto perde quella maschera severa e gli occhi si riempiono di commozione. Poi arriva la moglie, che riesce-vicino al suo uomo – a nascondere tutto il dolore e tutta la disperazione. Due sacerdoti effettuano il servizio religioso. Uno viene al mattino. Gli ho chiesto dove lavorasse e mi ha risposto che sta in Curia. Quando gli ho detto che ho scritto una lettera aperta al Cardinale Crescenzio Sepe, invitandolo a non farsi troppo fotografare con uomini di turno del potere, si è incupito e da allora si limita ad un semplice forzato saluto. Il sacerdote che viene di sera porta nella mano sinistra un piccolo calice. E’ in Italia da venti anni, proviene dall’America Latina. Mi chiede se voglio farmi la Comunione, però vuol sapere se mi sono confessato. La sua domanda è per me una sfida. No, non mi sono confessato. Il mio dialogo con l’Eterno è diretto, senza tramiti. Però mi rendo conto che la confessione dà molto sollievo; come ricorda Thomas Merton, autore della Montagna dalle sette balze. E’ come se ci fosse un travaso di pesi, un alleggerimento della propria coscienza. Anche lui ricorda benissimo Thomas Merton e i suoi libri lo hanno molto formato. Una vita movimentata, quella di Merton. Suo padre era francese, la mamma americana. Visse fra i due continenti, divenne professore alla Columbia University di New York, si fece monaco trappista. Silenzio assoluto e continuo. Non parlare, non parlare mai. Alla mia destra è appena arrivato Ciro. E’ giovane, non più di trent’anni. Gli hanno appena praticato la laringectomia. In un paio di giorni riesce a parlare. Anche oggi c’è il sole, la valle è attraversata dai suoi raggi. Tanti, tantissimi raggi di sole dovrebbero poggiarsi su questi corpi malati e sempre con la speranza di guarire. Tanti raggi di sole per questa gente che sente il dolore a piene mani. Diritti di copyright riservati |